27 OTTOBRE | Presentazione volume “Fedele Lampertico 1833-1906” di Giorgio Ceraso e inaugurazione restauro monumento Fedele Lampertico

Giovedì 27 ottobre 2022 alle ore 15.30
nel Salone d’Onore di Palazzo Chiericati si svolgerà la presentazione del volume
Fedele Lampertico 1833-1906. Un grande vicentino da rivalutare
di Giorgio Ceraso
(la pubblicazione sarà distribuita a tutti i presenti)
L’incontro sarà preceduto dall’inaugurazione da parte del sindaco Francesco Rucco alle ore 11.00 del restauro del monumento di Fedele Lampertico in Piazza Matteotti curato da Engim Veneto Professioni del restauro di Vicenza.

Le due iniziative sono frutto di una sinergia tra
Amici dei Monumenti di Vicenza e Lions Club Vicenza Host

Visita a villa Valmarana a Lisiera e agli affreschi di Ubaldo Oppi a Bolzano Vicentino

I Soci dell’Associazione Amici dei Musei di Vicenza, domenica 9 ottobre hanno avuto l’onore di essere invitati alla tradizionale Tornata esterna dell’Accademia Olimpica, quest’anno a Bolzano Vicentino per i dipinti e i bozzetti di Ubaldo Oppi, e nella splendida Villa Valmarana di Lisiera, per un viaggio con Scamozzi e Palladio. Grazie al Comune di Bolzano Vicentino per la collaborazione, ai proprietari della Villa per la squisita ospitalità.
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Le Via Crucis artistiche nel vicentino- Conferenza del 13.04.2021

Martedì 13 aprile, sulla piattaforma Zoom e in collaborazione con il Museo Diocesano di Vicenza, si è tenuto un incontro online dedicato alla storia e all’arte della Via Crucis, durante il quale la Dott.ssa Manuela Mantiero e Mons. Gasparini, successivamente ai saluti istituzionali del Presidente Sig. Bagnara, hanno tracciato un profilo storico e artistico delle Via Crucis del vicentino, analizzando alcuni esempi presenti nel territorio, al fine di evidenziarne genesi, evoluzione e significati artistici.

La storia della Via Crucis parte dalla storia della pellegrina spagnola Egeria, una scrittrice romana e autrice di un Itinerarium in cui racconta il suo viaggio nei luoghi santi della cristianità, che si era recata in Palestina per cercare di ripercorrere il percorso di Gesù, delineato a partire dal pretorio, fatto giungere fino al luogo del calvario e poi conclusosi alla tomba: era una peregrinatio che questi pellegrini facevano nei santuari a Gerusalemme e che poi, tornati a casa, cercavano di riprodurre, come accade a Roma o nelle sette chiese di Santo Stefano a Bologna. Questi pellegrini, dunque, rappresentano i prodromi della Via Crucis, che diventa importante perché, a partire dall’XI secolo, abbiamo una devozione alla passione di Cristo, quindi al Gesù sofferente in particolare. In questo caso, è San Bernardo uno dei principali precursori della passione redentrice di Gesù. Tuttavia, è San Francesco d’Assisi che diede il via alla Via Crucis, questo percorso in ricordo alla passione di Cristo. Questa sua devozione principale la vediamo nel Crocifisso di Santa Chiara d’Assisi, dove è raffigurato mentre bacia i piedi di Cristo. Anche nella Croce di Trevi del 1315 circa, il Santo è raffigurato ai piedi di Cristo, che quasi sembra berne il sangue che esce dalle ferite.

Nel 1233, i frati francescani saranno stabilmente presenti in Terrasanta: forse è questo il momento della genesi della Via Crucis. Inoltre, anche le successive crociate renderanno importante questa devozione al pellegrinaggio e alla Via Crucis a partire dal XII secolo.

Questa realtà diventa parte anche della pietà del mondo cristiano: inizialmente c’era una devozione alle cadute di Cristo durante la sua passione, fissate ora nel numero di 3. L’altra devozione che incontriamo è quella per gli spostamenti di Gesù, secondo la quale i fedeli, il Venerdì Santo, avrebbero dovuto visitare tante chiese quanti erano gli spostamenti riconosciuti.

Beato Alvaro de Zamora è il primo che dà vita a una Via Crucis articolata: nella città di Cordoba fa costruire una serie di cappelle che vanno dalla preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi fino alla deposizione nel sepolcro. Egli è sicuramente l’ispiratore della Via Crucis, anche se quest’ultima verrà realizzata sicuramente molto più tardi: solo alla fine del Cinquecento, infatti, incontriamo in Spagna la Via Crucis composta da 14 stazioni, la quale si sposterà in Sardegna nel 1616 per arrivare poi nella penisola italica. La diffusione della Via Crucis è da attribuire da Leonardo da Porto Maurizio, un frate minore riformato francescano, ideatore e promotore della pratica della Via Crucis, che ne realizzò una al Colosseo su commissione di papa Benedetto XIV: iniziò così una tradizione annuale di Via Crucis al Colosseo. Sarà proprio questo papa che, con una bolla papale, definirà la Via Crucis con 14 stazioni. Questa pratica, tuttavia, non sarà gradita nel nord Europa: in Austria, Germania e nel Tirolo continueranno a mantenere una tipologia di Via Crucis composta da un numero minore di stazioni, in quanto si attenevano al Vangelo e in quest’ultimo non sono presenti alcuni episodi riconosciuti invece dalla tipologia di Via Crucis adottata dal papa.

Un caso particolare è riscontrabile nella chiesa di Santa Maria di Brancafora o Pedemonte: c’è una Va Crucis che rispetta le tipologie del mondo austriaco e, quindi, è difficile definire se questa sia stata fatta prima della bolla di Benedetto XIV o in un momento successivo, quando il giansenismo rifiutava i seguenti episodi della Via Crucis introdotti dal papa: Gesù nell’orto degli ulivi con gli apostoli e l’angelo con il calice in mano, la flagellazione del Cristo alla colonna e la condanna di Pilato.

La data del 1742, anno in cui Benedetto XIV emana la bolla papale definendo la Via Crucis, non a caso corrisponde alla data della prima attestazione di rappresentazione della Via Crucis a Vicenza: si tratta del ciclo di 14 telette di Costantino Pasqualotto ancora conservate nella chiesa di San Giuliano a Vicenza.

Costantino Pasqualotto, nato nel 1681, è definito come il maggiore artista presente a Vicenza dalla cronaca del tempo. Tuttavia, ebbe esiti altalenanti. La sua pittura si rifà sicuramente a Giulio Carpioni, anche se viene mediata dall’arte di Giovanni Antonio de’ Pieri, artista verso cui Pasqualotto guarderà per tutta la vita, soprattutto dagli anni ’20 del Settecento. Nel Transito di San Giuseppe vediamo alcuni suoi stilemi compositivi che si ripetono costantemente: il candore nei volti delle donne e i pomelli rosati delle gote. Tuttavia, nella sua produzione non mancano interessanti sperimentazioni, come accade nella Via Crucis di San Giuliano: nella rappresentazione di queste nuove stazioni si cimenta prima ancora di quei cicli veneziani di Tiepolo. Quindi, il modello di Via Crucis di Pasqualotto per San Giuliano è uno tra i primi realizzati in Veneto, ripreso a più mandate da molte chiese cristiani negli anni successivi.

Le sue tele della Via Crucis sono animate da accordi luminosi brillanti e la collocazione della croce è studiata in modo da creare un certo movimento in ogni singolo episodio. La definizione dei contorni è precisa e Pasqualotto, infatti, dedicata una particolare attenzione alla ricerca degli accostamenti cromatici. La stazione con una qualità pittorica maggiore rispetto alle altre è probabilmente la prima, in cui si può notare il cromatismo cangiante tipico di Pasqualotto. La cosa interessante di questa serie è l’ideazione dei soggetti, che poi andranno ripetendosi in moltissime altre chiese del territorio: altri artisti ripeteranno i modi compositivi di Pasqualotto, in quanto egli aveva creato il primo modello di riferimento della via Crucis.

Costantino Pasqualotto, secondo l’attribuzione di Mario Saccardo, realizza la prima Via Crucis che si avvicina alla sua precedente per la chiesa di San Giuliano. Questa serie viene realizzata nel 1747-48 per la chiesa parrocchiale di Povolaro e poi regalata da quest’ultima alla Cattedrale di Vicenza in occasione della sua riapertura dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale molte opere d’arte presenti all’interno erano state distrutte.

In questo ciclo pittorico notiamo un’evoluzione della mano di Pasqualotto: c’è una maggiore libertà espressiva, le pennellate sono più rapide e veloci, la resa drammatica è più incisiva, il tono narrativo è più scorrevole e il cromatismo è più sciolto, non c’è più il contorno preciso di San Giuliano. Se si confrontano le prime stazioni dei due cicli si osserva, infatti, una resa drammatica e una resa cromatica differente. La seconda serie è più elementare e sintetica ma con un’assoluta esaltazione della drammaticità.

Una novità del secondo ciclo è data dall’introduzione di un personaggio che si ripete per 12 stazioni, il quale porta un canestro con all’interno l’occorrente per la crocifissione. Rispetto alla tela di San Giuliano, notiamo una differenza: compaiono le scene della flagellazione e dell’incoronazione di spine, inserite all’interno della scena con Pilato.

 

Un’altra Via Crucis presente nelle chiese vicentine, la cui composizione si deve al modello di Pasqualotto del 1742, è quella conservata nella chiesa di Santa Corona a Vicenza. Questa serie è stata probabilmente realizzata nella seconda metà del Seicento da un autore veneto non bene identificato.

La dott.ssa Mantiero, dopo aver scoperto e studiato quest’ultima serie, ha identificato per noi altri tre cicli pittorici di Via Crucis dipendenti dal modello di San Giuliano del 1742: una di Costantino Pasqualotto – o di qualcuno che lavora con lui nella sua bottega – conservata nella chiesa di Sant’Antonio Abate di Schio; una proveniente dal santuario di S. Libera di Malo e l’ultima realizzata tra la fine dell’XVIII e l’inizio del XIX secolo e conservata nella chiesa di San Brizio di Monteforte d’Alpone.

Noemi Zaupa

Il “Salvatore trasfigurato” di Giovanni Bellini. Intervista ad Agata Keran e a Mons.Gasparini a cura di Katia Brugnolo- 30.03.2021

INTERVISTA AD AGATA KERAN E A MONS. GASPARINI

IL “SALVATORE TRASFIGURATO” DI GIOVANNI BELLINI. RIFLESSIONI E FONTI PER UNA LETTURA ICONOLOGICA DELL’OPERA

Martedì 30 marzo si è tenuta sulla piattaforma Zoom l’intervista alla dott.ssa Agata Keran e a Mons. Gasparini a cura della docente Katia Brugnolo. Attraverso la presentazione del saggio Il “Salvatore trasfigurato” di Giovanni Bellini. Riflessioni e fonti per una lettura iconologica dell’opera, scritto da Agata Keran e recentemente pubblicato a cura di ZeL Edizioni, i due ospiti hanno delineato il profilo storico e artistico di una Vicenza umanista, spiegandoci inoltre come questo periodo culturale abbia influito sulla genesi del dipinto belliniano. Leggiamo, dunque, l’interessante e didattica chiacchierata avvenuta tra l’intervistatrice Katia Brugnolo (grassetto) e i due oratori, la dott.ssa Agata Keran (stampatello) e Mons. Gasparini (corsivo).

“Chiederei ad Agata Keran di guidare il nostro pubblico alla conoscenza delle importanti presenze e simbologie legate a due mondi importantissimi, il mondo della natura e della teologia, all’interno del dipinto di Giovanni Bellini”

La dott.ssa Agata Keran cerca di tracciare una sintesi di queste simbologie e presenze, partendo dalla scansione in tre registri tematici della composizione: lo sfondo paesaggistico, la scena teofanica e il percorso di salita. Nel primo registro vediamo un importante sfondo paesaggistico, fondamentale per la lettura del dipinto, un surplus dato dal maestro: la scena diventa finalmente un tessuto vivente grazie alla natura e alle presenze architettoniche. Nella tradizione iconografica, la grande importanza è data dal registro centrale, la cui centralità rispecchia perfettamente il momento della trasfigurazione sul Monte Tabor: salito sul Monte Tabor con Giacomo, Pietro e Giovanni, Gesù si trasfigura dinnanzi a due grandi testimoni dell’antico testamento, Mosè ed Elia. La scena è di carattere teofanico perché Cristo si svela nella sua natura divina, prefigurando la luce della resurrezione. Infatti, il bagliore della sua veste calamita l’attenzione in modo quasi ipnotico.

Lo sguardo in contemplazione potrà soffermarsi su questa moltitudine di dettagli allegorici diffusi nella composizione: dalla gestualità dei protagonisti, a molteplici elementi paesaggistici ed  allegorici; e soprattutto la staccionata dell’ultimo registro, che in realtà è il primo che noi attraversiamo come osservatori, perché è un invito a salire questa staccionata, di proseguire lungo il colle con la fatica dei nostri passi per salire al Tabor e partecipare attivamente attraverso la preghiera a questo episodio evangelico. In questo caso, la roccia è una roccia parlante, descritta in modo minuzioso, costellata di piante salubri: un vero e proprio repertorio botanico.

L’albero tagliato in primo piano accanto alla figura di San Giacomo ci fa capire quanto è polisemantico un simbolo: allude contemporaneamente sia al futuro sacrificio di Gesù sia al martirio dell’apostolo Giacomo.

 

“La liturgia delle ore: com’era proposta al tempo di Bellini e com’è, invece, proposta al giorno d’oggi?”

La liturgia delle ore è rimasta con la sua scansione. Forse, all’epoca del Bellini, all’inizio del XVI secolo, il discorso era più preciso perché la vita era meno segnata dal movimento e dalle occupazioni. Quindi, il mattino nella cattedrale cominciava con le messe, l’ufficio delle letture, e soprattutto le lodi, che scandivano la vita quando c’era il sorgere del sole. Al tempo, sorgeva la luce, entrava dai grandi finestroni bianchi dell’abside della cattedrale e si accompagnava al momento dell’Inno al Cristo. Al tramonto, analogamente, quando il sole calava ed inondava di luce la cattedrale, si iniziava la liturgia dei Vespri. La cattedrale di Vicenza, fino alla ricostruzione postbellica, era tutta bianca, non c’era questo finto mattone dipinto; quindi la luce entrava con tutta la sua evidenza ed inondava la cattedrale.

“Passando a considerare la commissione vicentina della pala e i passaggi di proprietà, l’enigma sull’opera s’infittì dopo che Edoardo Aslan nel 1956 intuì che la Trasfigurazione di Bellini andava associata alla cattedrale di Vicenza. L’opera, dal 1613, viene rimossa dalla cattedrale e vive parecchi anni di presenza misteriosa nella collezione Farnese. Inoltre, la possibile commissione della famiglia Fioccardo costituisce un ulteriore percorso di ricerca che Agata Keran sviscera fornendo ipotesi basate su ricerche scientifiche. Quali sono dunque gli elementi oggettivamene certi e provanti e quali incertezze, invece, restano ancora da appurare sulla commissione vicentina della pala di Bellini?”

Quando si entra in cattedrale, la seconda cappella sulla sinistra non ha nulla a che fare con la cappella che ospitava la pala del Bellini. Ancora oggi, questa cappella dei Fioccardo si chiama “della Trasfigurazione” e ospita un dipinto che rappresenta il soggetto iconografico della Trasfigurazione. Alla fine del XV secolo, tuttavia, non c’era l’altare Cinquecentesco ad oggi presente perché quest’ultimo era posizionato sulla controfacciata della cattedrale. C’era una pala rettangolare al suo posto, dettaglio che ci fa dunque pensare ad una cappella totalmente diversa da come la vediamo oggi.

Sicuramente, nella cappella Fioccardo, ci doveva essere una pala del Bellini e, se consideriamo l’ipotesi che la pala fosse proprio quella presente ora a Capodimonte, l’intuizione di Aslan è corretta. Tuttavia, i riscontri documentari non sono calzanti, quindi è un paradigma ipotetico. Lavorando intensamente per quattro anni sulle fonti d’archivio letterarie, la dott.ssa Keran arriva a capire che l’intuizione geniale di Aslan deve mantenere un certo grado di incertezza: è plausibile che la Trasfigurazione di Capodimonte sia stata realizzata per la cattedrale di Vicenza ma non abbiamo nessuna prova certa, anche perché lo stesso Bellini dipinse due opere con lo stesso soggetto.

L’ipotetica committenza vicentina era certamente all’altezza di tale portata, simbolo di una Vicenza dell’epoca umanistica straordinariamente interessante, attraversata non solo da astri nascenti attivi in città, ma anche da molti passaggi che hanno dato un grande apporto alla città.

“La non conoscenza dell’iconografia e dell’iconografia religiosa porta oggi a scambiare la Trasfigurazione con la Resurrezione. Ci racconta quando e come è successo a livello universitario?”

Se si vuole capire ed entrare in profondità in un quadro, bisogna capire l’episodio biblico che rappresenta e, soprattutto, il momento di suddetto episodio che l’autore vuole rappresentare. Per esempio, l’Ultima Cena di Leonardo è un momento che l’autore vuole rappresentare: quando Cristo afferma che qualcuno lo tradirà. L’arte, infatti, dà una sua interpretazione teologica dei fatti biblici narrati, perché l’arte non è soltanto descrizione della Bibbia, ma diventa teologia, interpretazione e prende parte attiva: non si entra nell’anima del quadro se non si capisce l’esatto momento biblico rappresentato. Esiste una povertà delle immagini, oggi, che non c’è da sorprendersi se qualcuno confonde il Cristo trasfigurato con il Cristo risorto. Un altro problema è dato dal fatto che ormai quasi più nessuno si ferma ad osservare il quadro, perché si è troppo impegnati a scattare fotografie con il cellulare. In questo modo, l’immagine non riesce ad entrare nel nostro cuore e raggiungere l’anima.

“Lo studio della figura di Alberto Fioccardo, canonico della cattedrale al momento della realizzazione dell’opera di Bellini, apre un’indagine molto stimolante per la lettura del dipinto belliniano sulle bellezze dell’ambiente naturale che circonda Vicenza. Il progetto iconografico da chi può essere stato formulato per la Trasfigurazione?”

La famiglia Fioccardo era di profilo molto alto. Lo stesso Alberto, arcidiacono della cattedrale, era una persona estremamente inserita in quello che era il tessuto umanistico, e non solo, della città a quel tempo ed era attivo nelle cerchie intellettuali, religiose e laiche di Roma e Padova. Le fonti, Memorie di Barbarano, lo descrivono come una figura illustre, uomo estremamente dotto. Dalle indagini, inoltre, è stata messa a fuoco la figura di Battista, il fratello ed erede di Alberto, che ha portato a compimento il disegno della cappella Fioccardo. Tuttavia, dallo studio di Agata Keran, emergono due figure mai prese in esame ma di notevole importanza: Bono di Battista Fioccardo, dottore in legge, e Bartolomeo di Zambono Ovetari, canonico della cattedrale vicentina. Essi sono menzionati direttamente del testamento di Alberto Fioccardo, due nipoti amatissimi che diventeranno portatori di questa eredità legata all’illustre zio.

Nel momento della realizzazione dell’opera di Bellini, Bartolomeo Ovetari era uno dei canonici della cattedrale, documentato in questo ruolo dal 1477 al 1493. Tale status gli consentiva senz’altro di sorvegliare da vicino i lavori della cappella Fioccardo, favorendo inoltre un eventuale contributo dottrinale nella messa a fuoco del programma iconografico della pala d’altare.

A Vicenza c’erano due centri culturali: uno legato alla cattedrale, il Capitolo della Cattedrale dei canonici, e l’altro era Santa Corona dei Domenicani. Entrambi si contendevano un primato religioso e liturgico, sia per la presenza di reliquie al loro interno che per la loro attività di ospitare importanti processioni. Questi canonici vicentini hanno, quindi, sicuramente aiutato un progetto iconografico: in cattedrale era presente la pala della Trasfigurazione e, pochi anni dopo, Santa Corona ha commissionato allo stesso Bellini una pala con il Battesimo di Cristo. Bisogna ricordare che nel 1404 Vicenza era entrata nella Serenissima Repubblica di Venezia, con conseguente arrivo di una forte ondata culturale.

“In copertina del volume c’è un ingrandimento del dipinto di Bellini che mostra due figure, un ebreo e un maomettano, dando occasione all’autrice di ricordare un’odiosa vicenda storica: la cacciata degli ebrei dalla città. Chiederei quindi un breve passaggio su questo punto importante.”

L’importante è quando questi capolavori riescono a raccontare un mondo intero, perché diventano un luogo dove si svela sensibilità di un’epoca, i pensieri, le preoccupazioni; un mondo di fatti luminosi e aspetti oscuri, perché quest’opera conserva anche un punto nero che ha segnato in modo profondo il cammino storico di questa comunità di Vicenza.

Nella copertina vediamo l’interesse per il mondo ebraico ma anche la presenza di un maomettano e di un ebreo, che evidenzia pregiudizi, idiosincrasie, paure e timori dell’epoca. Per capire cosa succede in quel momento, bisogna evidenziare una mostra realizzata recentemente al Museo Diocesano Tridentino: ha raccontato in modo approfondito la temperie antiebraica attraverso un caso trentino di un fanciullo piccolissimo, Simonino di Trento, per la cui l’uccisione è stata calunniata la comunità ebraica di Trento. Lo stesso analogo caso è successo anche nel vicentino: la città di Vicenza, nel 1486, arriverà ad un pogrom nei confronti degli ebrei residenti nel territorio vicentino, con il pretesto di un assassinio rituale accaduto in Val Rovina. Il libro della dott.ssa Keran vuole quindi fornire una valida bibliografia per questi temi presenti nel dipinto, il quale apre una narrazione polifonica e una serie di considerazione su molti temi, anche diversi fra di loro.

Tuttavia, la presenza dell’ebreo errante e del maomettano non può essere accusata di questa ferocia, ma è da considerarsi semplicemente come una coppia polare: l’ebreo si oppone all’opulenza del turco.

Su queste due piccole figure, si apre un mondo difficile da capire in una piccola città come Vicenza, che si configura all’interno della Repubblica Veneta come una città in cui le regole contro gli ebrei sono più rigide e numerose. Infatti, dalla cacciata degli ebrei del 1486, Vicenza non avrà più nessuna comunità ebraica presente in città, come invece continua ad esserci in tutte le altre città del Veneto.

“Le iscrizioni ebraiche nel dipinto richiamano il tema del dialogo interreligioso e chiamano intellettuali dell’epoca molto importanti, quali Ermolao Barbaro, Piero Leoni e Nicola Cusano, che sostengono il dialogo interreligioso in contrasto con la temperie antisemita vicentina.”

Bellini è sempre stato sensibile in questo senso, ma bisogna anche considerare la committenza e il periodo storico e culturale di Vicenza a quell’epoca, subito dopo la cacciata degli ebrei dalla città. Siamo in un momento di grande fermento che si vive anche nella cattedrale: da un lato c’è il canonico, Alessandro Nievo, e dall’altro c’è la famiglia Fioccardo. Quindi, se quest’opera è stata realizzata per Vicenza, vuol dire che c’è stata una tensione, un movimento e una disquisizione attorno a una polemica pubblica circa quest’odio antisemita.

Oltre alle iscrizioni, ci sono anche altri dettagli che si vedono sullo sfondo: nel paesaggio troviamo delle pietre diroccate che sono un’allusione al sepolcreto ebraico, quindi l’elemento ebraico è molto presente. Questo interesse per la cultura ebraica è una breccia molto coinvolgente: la stessa autrice ha proseguito lungo questa linea per arrivare a seguire le orme del Beato Ambrogio Traversali, presente nella filigrana di questa narrazione. Egli è l’iniziatore di questa attenzione nei confronti del dialogo interreligioso ed è una figura fondamentale per l’Umanesimo italiano: vuole tornare alle radici, non solo desidera acquisire i testi della parola greca, ma comincia a coinvolgere i madre lingua che parlano in ebraico – cosa fondamentale per le iscrizioni presenti in questo dipinto.

Nella palla belliniana troviamo Mosè in abito rosso e il profeta Elia. Il primo personaggio tiene fra le mani un cartiglio in cui è riportata la data ebraica “5239”, che equivale al periodo a cavallo tra l’anno 1478 e 1479. È un anno calendariale ebraico che inizia sempre in autunno e, in questo senso, è interessante metterlo a confronto con il paesaggio del dipinto: le specie botaniche che possiamo osservare, come il ciclamino, diventano un indicatore di stagione. La scritta presente sul cartiglio suggerisce il nome di Menahem, che il paleografo indica come la firma dell’autore delle iscrizioni del quadro e lo associa a un maestro madrelingua coinvolto per l’occasione. Per quanto riguarda l’interpretazione della scritta, la dott.ssa concorda con Saracino nello stabilire “Consolatore” come significato ebraico della parola Menahem; mentre l’abbreviazione ebraica “br” potrebbe significare “figlio” in aramaico. Quindi, l’iscrizione si potrebbe tradurre con “Consolatore figlio di Dio”.

A questo proposito bisogna ricordare il passo di San Paolo riferito al Consolatore Gesù: qui si nota la molteplicità della parola “consolazione”, che viene ribadita più volte ed entra nel cuore della preghiera.

La presenza di testi ebraici nei dipinti quattrocenteschi è molto diffusa e qui si vede chiaramente come ci sia un emergere, nel Rinascimento, del mondo ebraico. Questo vuol dire che c’era un dialogo tra il mondo dotto cristiano-occidentale e il mondo dotto degli ebrei. Gli artisti che hanno inserito l’ebraico nelle loro opere sono, specialmente, quelli operanti nell’area veneta ed emiliana. Tuttavia, tutti i rinascimentali sono autori che nella loro competenza hanno latino, greco ed anche ebraico: non sono anticristiani ma vogliono tornare alle radici della fede cristiana, valutando anche le radici ebraiche del cristianesimo.

Noemi Zaupa

René Magritte e la pittura come specchio dell’inconscio. La morte della madre, il raffreddamento dei colori e il congelamento della forma – Conferenza 16.03.2021

Martedì 16 marzo ha avuto luogo sulla piattaforma Zoom l’ultimo appuntamento del corso di formazione “Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi”, un progetto pilota ideato dagli Amici dei Musei di Vicenza durante il quale il professore e psicoterapeuta Davide Pagnoncelli e la professoressa Katia Brugnolo ci hanno accompagnato per illustrarci e analizzare il profilo psicologico e artistico di grandi autori.

Protagonista di questo ultimo incontro è René Magritte, nato il 21 novembre 1898 a Lessines (Belgio), in una famiglia di commercianti. Il fatto di appartenere ad una famiglia che fa questo mestiere, lo costrinse a trasferirsi diverse volte durante la sua infanzia: nel 1904 è a Châtelet, città in cui iniziò a seguire un corso di pittura in un atelier. Durante la sua giovinezza Magritte visse dei momenti fondamentali per la formazione del suo carattere e del suo stile pittorico: in primis la conoscenza di un pittore di strada la cui pittura, secondo René, sembrava magica, dotata di poteri superiori. In questo periodo il padre incoraggia fin da subito la sua propensione all’arte, sia quella pittorica che quella orientata alla settima arte dai fumetti, ai libri d’avventura fino appunto ai film thriller, noir e di fantascienza. Tuttavia, il giovane Magritte è segnato precocemente dalla morte della madre, suicidatasi nel fiume Sambre e ritrovata, secondo alcune fonti, con il volto ricoperto dalla camicia da notte. Questa immagine influenzò spesso la sua pittura, nella quale ritroviamo più volte i soggetti con il volto velato, come accade nel dipinto Gli Amanti del 1928, il cui drappo rappresenta sia la sua tragedia personale che la riflessione dei Surrealisti sulla maschera e sull’inganno, che trova dei riferimenti nella produzione fumettistica e cinematografica. Tuttavia, durante tutta la sua vita, René negò costantemente la possibilità che la tragedia della morte della madre avesse influenzato la sua pittura.

Il dipinto Le vacanze di Hegel del 1958 è la testimonianza del fatto che lo stile di Magritte è in perpetua evoluzione. Si tratta di un ritratto mancato del filosofo Hegel, il quale, probabilmente in vacanza e senza ombrello, viene colto improvvisamente da un temporale. Da grande appassionato di filosofia, René mette in crisi la dialettica della razionalità di Hegel (per cui ciò che è reale è razionale e viceversa) creandone una parodia: una sintesi ironica che evidenzia come il mondo sia costantemente in contraddizione con se stesso, in quanto entrambi gli oggetti rappresentati, se capovolti, possono sia contenere l’acqua che allontanarla.

René Magritte frequentò le scuole con scarsi risultati, in quanto preferì il disegno e la lettura di fumetti e libri noir. In quegli anni conobbe una ragazzina di 13 anni, Georgette Berger, che però perse di vista durante la Prima Guerra Mondiale. La incontrerà di nuovo terminata la guerra e la sposerà nel 1919. Durante l’occupazione tedesca la vita del pittore risultò maggiormente movimentata: prima si trasferì di nuovo a Châtelet con la famiglia, si ritira dagli studi e poi si trasferisce a Bruxelles, dove frequenta l’Accademia Reale di Belle Arti. Pochi anni dopo iniziò a collaborare con riviste e come cartellonista e pubblicitario, impiego principale che lo accompagnerà per tutta la sua vita.

L’introduzione biografica, affidata alla docente Katia Brugnolo, lascia il posato alla trattazione del prof. Pagnoncelli che spiega in breve di cosa tratta la psicoanalisi: un progetto di svelamento con lo scopo di riconoscere le strutture interne ed inconsce dell’individuo per giungere alla realizzazione del sé o, in particolare, del sé creativo. Tuttavia, l’artista non sempre è consapevole di utilizzare i tratti di personalità patologici come stimolo per essere creativo. D’altronde, l’arte è una delle porte privilegiate per accedere all’inconscio, l’arte è un sogno, non è una riproduzione della realtà, fa rinascere la realtà e la fa rivivere, quindi l’inconscio è sicuramente artistico e poetico.

La docente Brugnolo prosegue ripercorrendo la carriera artistica del giovane pittore, impegnato fino agli anni ’20 come cartellonista e pubblicitario, che crea opere dal gusto postimpressionista quale Busto di gesso e frutta del 1917. Nel tempo Magritte si avvicina alle avanguardie del Cubismo e del Futurismo approdando a soluzioni stilistiche più sperimentali: nelle opere del 1923 circa, soprattutto dedicate a nudi femminili dalle forme stilizzate come Donna, mostra influenze del Purismo, movimento di pensiero caratterizzato da ordine, razionalità e precisione, che sono alla base anche del dipinto Natura Morta del 1920-21.

Lo stile pittorico di René cambia repentinamente quando il pittore si avvicina all’arte di Giorgio de Chirico, dalla quale rimane sconvolto. Da questo incontro nascono opere fondamentali della pittura di Magritte, quale Il fantino perduto del 1926, che evoca un mondo nuovo in cui gli oggetti perdono la loro identità e ne assumono una nuova, inaspettata. È in questo momento che inizia a realizzare quadri che esprimono un’intenzione nuova: il Ritratto di Georgette con bilboquet del 1926 è infatti caratterizzato da elementi che impongono delle domande all’osservatore, il quale avverte il mistero di questa rappresentazione. In questi stessi anni Magritte allestisce la sua prima mostra personale con circa sessanta dipinti, della quale, però, non riceve recensioni positive da parte della critica.

La morte della madre, continua Pagnoncelli, ha influenzato l’intera esistenza e produzione artistica del pittore, ma non solo. Infatti, la sua vita è condizionata anche da tre esperienze da lui vissute tra il 1900 e il 1909 testimoniate da una serie di elementi: una cassa posta vicino la sua culla, che a lui sembra un oggetto avvolto da mistero; un areostato caduto dal cielo sopra la casa dei suoi genitori e, soprattutto, l’abbigliamento e le manovre dei piloti all’interno; giocare con una bambina nelle cripte di un vecchio cimitero, dove un pittore dipingeva un viale pittoresco. Da quest’ultimo ricordo, Magritte ha appreso che la pittura ha poco a che vedere con la realtà nella sua immediatezza. Quindi, con la sua pittura, René cerca di vedere il mondo in maniera diversa da come gli si vuole imporre, dipingendo infatti immagini il meno conformiste possibili.

Prende nuovamente parola la prof.ssa Brugnolo per analizzare la carriera stilistica di Magritte partendo dal suo dipinto L’assassino minacciato del 1926: qui troviamo infatti elementi ricorrenti nella sua produzione artistica, quali l’uomo con la bombetta, il gioco prospettico della sala e il clima sospeso che si respira nella scena. Gli elementi a cui si ispira per la realizzazione di questa tela sono i fumetti e il cinema d’avventura, le sue più grandi passioni. Da quest’ultime, in particolare dalla sua passione per i film noir, nasce l’opera Il doppio segreto del 1927, in cui la tavolozza è orientata verso una ristretta gamma di colori freddi, le forme sono delineate da contorni precise e il soggetto enigmatico si rifà al tema del “doppio”, tema prediletto da De Chirico.

In che modo un pittore sceglie il titolo del quadro? Domanda che sicuramente ci si è posti una volta nella vita. A darci la risposta è Pagnoncelli, il quale ci informa che spesso Magritte si trovava con gli amici al fine di scovare un titolo per i suoi quadri. Tuttavia, come testimonia la moglie del pittore, quasi mai uno di loro riusciva a soddisfare le esigenze di René. È Paul Nougé l’unico a riuscirci, suggerendo il titolo del quadro L’impero delle luci. Inoltre, il poeta belga sostiene che i titoli dei quadri devono essere poetici, non devono rappresentare il quadro e che il quadro non deve spiegare il titolo, perché il rapporto tra i due è un rapporto poetico, che solo l’arte sa cogliere.

La vita di René Magritte, come quella di quasi tutti gli artisti, è suddivisa per periodi. Brugnolo ci introduce ora in quello caratterizzato dalla produzione di quadri legati al ruolo della parola, come La chiave dei sogni del 1927. Esso è suddiviso in quattro caselle, ove sono rappresentati degli oggetti (una borsa, un coltellino, una foglia e una spugna) accostati però a una scritta che descrive altro, qualcosa di diverso. Tuttavia, l’ultima casella, quella con la spugna, è l’unica ad avere la corrispondenza immagine/iscrizione, rompendo la logicità della sequenza e creando stupore nello spettatore, ormai certo di aver trovato la logica della non-corrispondenza tra parole e immagini. Nel 1930, Magritte dipinge una seconda versione dello stesso dipinto, formato ora da sei caselle e altrettanti oggetti e scritte rappresentate, che però non combaciano tra di loro perché, come sostiene il pittore, “le parole sono parole e le immagini sono immagini”, non devono per forza avere un accostamento semantico.

Un’altra opera di questa serie è Il tradimento delle immagini (questa non è una pipa) del 1929, in cui l’artista sembra invitarci ad abbandonare il rapporto utilitaristico che abbiamo con gli oggetti e con il linguaggio. Da ricordare che Magritte è stato principalmente un pubblicitario, impiego che lo metteva costantemente ad analizzare il rapporto dell’uomo con le parole, le immagini e gli oggetti, constatando quanto la comunicazione spesso sia menzognera. Infatti, è un pittore che ha sempre utilizzato la sua produzione artistica per rendere visibili i misteri del mondo.

Ad inizio degli anni ’30, Magritte inizia a collaborare con André Breton, il quale decide di dedicare un intero saggio al quadro Lo stupro del 1934. Successivamente, la fama e la carriera del pittore iniziano ad evolversi: espone al Palazzo di Belle Arti di Bruxelles, a New York con la sua prima mostra personale, a Londra e al MoMA di New York.

Dopo questo periodo di decollo lavorativo, René decide di cambiare qualcosa nell’approccio alla creazione dell’immagine: ora si concentra nei problemi da risolvere. C’è da dire che Magritte, a differenza di molti suoi colleghi, non vedeva l’arte come uno strumento di autoaffermazione personale, ma un mezzo per risolvere problemi filosofici. A tale riguardo, consideriamo l’opera La condizione umana del 1933. In questo dipinto il problema è la finestra, oggetto utile a decriptare i meccanismi del nostro cervello in relazione alla realtà, collocata dietro ad un cavalletto da pittore. Questa tela obbliga lo spettatore a porsi delle domande, a riflettere sulla realtà delle cose, sula precarietà delle proprie certezze. Qui il fruitore non è in grado di capire se il paesaggio sia visto in trasparenza attraverso la tela, se lo stesso paesaggio sia dipinto sulla tela, o se sia sulla tela o solo fuori dalla finestra. Anche La chiave dei campi del 1936 vuole instillare lo stesso dubbio e le stesse riflessioni nella mente di chi guarda, come La riproduzione vietata del 1937 e Il tempo pugnalato del 1938, nel quale Magritte vuole generare una sensazione di inquietudine e inadeguatezza attraverso la rappresentazione di oggetti di uso comune in contesti inusuali. Ciò accade anche nel quadro L’invenzione collettiva del 1935 e Il modello rosso del 1937. Pagnoncelli aggiunge che Magritte gioca con queste finzioni nei suoi quadri, le esprime in modo artistico e ci invita a riflettere su ciò che sta oltre il significato degli oggetti, del visibile, entrando nel mondo del mistero.

La carriera artistica del pittore subisce una pausa a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, periodo durante il quale si traferisce prima a Parigi e poi a Bruxelles. In questo nuovo periodo creativo, René, come vediamo nel dipinto The harvest del 1943, riprende lo stile del pittore Renoir, caratterizzato da colori accessi e cangianti, e soggetti femminili portatori di speranza ed erotismo. La produzione degli anni ’40 di Magritte, caratterizzata da un’influenza dello stile surrealista, lo relega nella sezione del Surrealismo durante diverse mostre a cui partecipa, con non poche critiche da parte degli esperti.

A seguito, René Magritte vive il periodo soprannominato “vache”, caratterizzato da un sentimento più aggressivo e feroce, di cui fanno parte diversi dipinti, quale La carestia del 1948, anno in cui dipinge circa una quarantina di dipinti con soggetti inquietanti, mostruosi e macabri.

Un’altra tappa nella carriera dell’artista è quella in cui gli oggetti, per lui, assumono un valore fondamentale. Con il quadro I valori personali del 1952, inizia una serie di immagini con oggetti ipertrofici o dalle proporzioni invertite, che assumo ora dei ruoli e dei significati diversi. Di questo gruppo fa parte anche il dipinto La tomba dei lottatori del 1960, che anticipa la tendenza che spopolerà successivamente, la Pop-art.

L’impero della luce del 1954 inaugura un’ulteriore fase della carriera artistica di Magritte, in cui il vero protagonista è lo scontro tra uomo e natura, realtà e finzione. Le opere di questi anni stanno tutte in bilico tra realtà e artificio, come accade in Il seduttore e in Golconda, entrambi del 1953, e ne Il castello dei Pirenei del 1959, dove la natura diventa ora un rifugio dell’uomo dalla paura.

Verso gli anni Sessanta, alla fine della sua vita, René Magritte realizza alcune delle più importanti opere della sua carriera: La corda sensibile del 1960, in cui possiamo vedere l’incontro tra un bicchiere e una nuvola, un gioco di accostamenti e di ribaltamento delle proporzioni, delle soluzioni spaziali e del peso. Qui arte e paesaggio si incontrano e l’arte si cala all’interno di esso, inaugurando il successivo movimento artistica della Land Art, l’arte creata all’interno e con il paesaggio. A tal proposito la docente Brugnolo ricorda anche il dipinto La grande famiglia del 1963, il cui tema segue lo stesso filo conduttore.

Non è un caso che la prof.ssa Brugnolo ci parli del quadro magrittiano del ’63, perché, come da tradizione ormai consolidata, il suo omaggio per questo ultimo appuntamento del corso di formazione “Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi” è la sua opera A tu per tu con René Magritte del 2021, in cui riprende i soggetti dei dipinti di Magritte. A concludere questa conferenza è la poesia scritta dal relatore Pagnoncelli, per  – e su – l’arte di Magritte.

Noemi Zaupa

Il complesso di Santa Corona e l’altare Corberelli – Conferenza 09.03.2021

Martedì 9 marzo si è tenuta la prima conferenza Zoom frutto della collaborazione tra l’associazione Amici dei Musei di Vicenza, il Museo Diocesano di Vicenza e il Museo Naturalistico Archeologico. I grandi protagonisti di questo appuntamento serale sono stati il Complesso di Santa Corona e l’altare Corberelli, presentati dalla dott.ssa Manuela Mantiero del Museo Diocesano e dal prof. Francesco Mezzalira, biologo e docente di Scienze.
Il primo a prendere parola, però, è stato il Presidente Mario Bagnara che, durante i tradizionali saluti istituzionali, approfitta della speciale occasione per aggiornarci sulla recente aggregatio del Museo Naturalistico Archeologico all’Associazione.

La dott.ssa Mantiero ci abbaglia e ci ipnotizza fin da subito con le sue parole e le sue spiegazioni: la relazione tra Museo Diocesano e Chiesa di Santa Corona nasce quando, in occasione di alcuni restauri, i capolavori presenti nella Chiesa vengono trasferiti e conservati al Museo, i cui collaboratori interni possono ora usufruirne al meglio per studiarli. E per fortuna, aggiungerei, visto che la dott.ssa continua mostrandoci e spiegandoci la bellezza e la storia di queste opere d’arte. Prima tra tutti è il Reliquiario della Sacra Spina, opera maestra dell’oreficeria veneta, che, nell’incastonato medaglione francese, dal 1260 ospita all’interno la reliquia della spina. Grazie a quest’opera d’arte giunta a Vicenza in quegli anni, il vescovo Bartolomeo da Breganze commissiona la costruzione di una chiesa per poterci conservare il Reliquiario al suo interno: si erige così la Chiesa di Santa Corona. Tuttavia, la storia della reliquia non si limita qui.

Nel 1255, pur necessitando – a Vicenza – di una forte presenza del clero, Bartolomeo da Breganze non può prendere possesso della cattedra episcopale vicentina a causa della presenza in città di un acerrimo nemico del papato, Ezzelino da Romano. Viene quindi inviato come nunzio apostolico del papa a Londra, dove ci rimane fino alla morte di Ezzelino nel 1259, anno in cui si affretta a tornare a Vicenza. Sulla strada del ritorno, Bartolomeo sosta a Parigi per salutare il suo amico Luigi IX re di Francia, che gli dona la spina della corona di Cristo, portata al collo da Bartolomeo (dentro al medaglione francese precedentemente visto) fino al suo rientro in città. Una volta a casa, il futuro vescovo riceve in eredità da Ezzelino tutti i beni della famiglia Da Romano per poter costruire una chiesa domenicana, destinata a custodire la reliquia della spina: la Chiesa di Santa Corona.
L’ingresso di Bartolomeo in città è testimoniato da un’altra opera presente al Museo, una tela del pittore vicentino Giovanni Antonio de’ Pieri, in cui l’artista dipinge sullo sfondo il campanile di Santa Corona e la torre di Piazza Castello (non ancora costruiti a quel tempo) come simboli per riconoscere la città di Vicenza.

Finalità dei Domenicani, ordine di frati predicatori a cui apparteneva anche Bartolomeo da Breganze, era quella di portare sulla retta via – quella della Chiesa di Roma – gli eretici. Non a caso la Chiesa di Santa Corona sorge su un luogo che, al tempo di Ezzelino da Romano, ospitava la sede dei Catari, eretici il cui scopo principale è il rinnovamento religioso della chiesa di Roma.
In questo periodo di grande rinnovamento, politico, urbanistico e spirituale, è la presenza degli ordini mendicanti di dipendenza diretta del papa – quali Domenicani, Francescani e Agostiniani – a diventare fondamentale. Ad aiutare la reputazione dei predicatori, oltre al fatto di essere ben voluti dal volgo per il loro aiuto concreto e diretto verso i poveri, c’è la cattiva stima dei vescovi da parte del popolo, spesso considerati corrotti, non leali e alle strette dipendenze della nobiltà.
Ancora, l’arrivo a Vicenza di questi ordini ha l’obiettivo principale di evangelizzare il borgo. Proprio per questo motivo gli ordini mendicanti si collocano in punti geograficamente strategici: il loro modus operandi prevede la costruzione delle proprie chiese all’interno delle mura ma vicino alle porte della città, al fine di poter uscire dalle mura cittadine e compiere la propria missione, evangelizzare il popolo. In questo modo, il nucleo urbano, da monocentrico tipicamente alto-medievale, diventa policentrico: i poteri civile e religioso (rappresentati dal Palazzo della Ragione e dalla Cattedrale) presenti al centro della città vengono suddivisi in più parti a causa della costruzione dei conventi dei tre ordini mendicanti. Quindi, di fatto, c’è uno spostamento fisico del potere religioso, che porta a relegare la zona di diretta influenza del Vescovo ad un solo angolo della città. Inoltre, osservando la Carta Angelica, la dott.ssa Mantiero ci fa notare che il borgo, all’altezza delle porte della città, quindi vicino a dove si collocano i conventi, si è riversato all’esterno delle mura cittadine, spostando la vita urbana anche verso la periferia.

Avendo terminato l’analisi storica della costruzione della Chiesa di Santa Corona, la dott.ssa continua descrivendo l’architettura del complesso: con la sua influenza lombarda e, più specificamente, cistercense, Santa Corona ci mostra ancora oggi il suo impianto architettonico duecentesco. La facciata, invece, è frutto di un rimaneggiamento tardo ottocentesco di Luigi Toniato, che ha rinnovato il rivestimento in laterizio e ha inserito la scultura del Solveni, Il Cristo coronato di spine, sopra il portale, proprio per la presenza della reliquia della spina all’interno dell’edificio. Anche la Cappella Maggiore e la cripta sottostante sono un’opera più tarda: vengono edificate a partire dal 1479 da Lorenzo da Bologna per sostituire il precedente abside. Ed è proprio in questa nuova abside che si innesta l’altare maggiore, protagonista del successivo intervento del professore Mezzalira.

Le bellezze di Santa Corona non terminano qui: la nostra guida “virtuale” procede – e conclude il suo prezioso intervento – con la descrizione dell’apparato decorativo della chiesa. Inizia proprio con il celebre dipinto Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, l’opera più importante e conosciuta di quelle conservate in questo luogo sacro. Tuttavia, le altre opere non sono di meno prestigio. Si ricorda, infatti, l’Adorazione dei Magi di Veronese e la Sacra Conversazione di Bartolomeo Montagna, la cui committente, la vedova Piera Porto, si fa ritrarre nei panni di Santa Monica, protettrice delle vedove, per chiedere la resurrezione del marito e il protettorato sulla sua vedovanza.
Ancora, la Cappella Valmarana che, secondo gli studiosi, sarebbe frutto del Palladio e la Cappella Thiene con gli affreschi del tardo-medievalista Michelino da Besozzo. La dott.ssa si sofferma, però, sul dipinto su tela della Madonna delle Stelle, pala trecentesca dell’artista Lorenzo Veneziano, la cui rarità non è data solo dalla tecnica di realizzazione, in quanto nel Trecento quasi nessuno dipingeva su tela, ma anche dall’iconografia: è infatti tipica dell’ambito domenicano e, soprattutto, del Nord Italia, dove si è diffusa durante il Trecento. Se altre versioni sono andate perdute con la Riforma delle Immagini del Concilio di Trento, questa Madonna che mostra il seno, simbolo di umiltà, invece, è rimasta fino ad oggi. Notiamo inoltre diversi simboli: la luna ai suoi piedi, il sole raggiato sul collo e, nella versione originaria, una corona con dodici stelle sul suo capo, che la rendono, quindi, anche la donna dell’Apocalisse. Verso il 1520 quest’icona viene rimodernata: viene chiamato il pittore vicentino Marcello Fogolino (1485- ?) per far riemergere una nuova immagine dalla tela, quella della Regina Coeli, come si può leggere dal cartiglio in alto. Inoltre, la veduta di Vicenza che si vede in basso è simbolo di protezione che la città chiede a Maria. Sebbene l’immagine più nota di Maria come protettrice della città di Vicenza sia quella della Madonna di Monte Berico, il cui manto protegge tutti i fedeli, la Madonna delle Stelle è individuata come protettrice dell’intera città e dell’intera comunità dei fedeli, che è infatti rappresentata ai suoi piedi.

Il professore Francesco Mezzalira prende la parola per illustrarci e farci conoscere un altro dei gioielli di Santa Corona, l’altare Corberelli. Quest’ultimo, con le sue tarsie lapidee e il suo apparato iconografico naturalistico – oltre che soggetto di una campagna fotografica – è anche al centro di uno studio storico da parte del nostro biologo, volto a collocare l’altare nella prospettiva evolutiva dell’antica tecnica del “Commesso Fiorentino”, prima utilizzata prettamente in ambito principesco ed ora commissionata anche in ambito religioso.
A testimonianza delle ricerche e del suo interesse condivide con noi un video da lui realizzato (che potete visionare su YouTube cliccando qui): La fauna simbolica dell’altare Corberelli. In questa rassegna fotografica commentata, scopriamo che l’altare maggiore di Santa Corona è stato realizzato secondo la tecnica sopracitata dal fiorentino Antonio Corberelli tra il 1670 e il 1686 (come riporta un’iscrizione in una sua lapide) con l’aiuto di alcuni suoi fratelli.
Mezzalira si sofferma però sulla parte naturalistica dell’apparato iconografico e, nello specifico, sul tema della zoo-iconologia, lo studio dei significati delle rappresentazioni animalistiche. Il primo esempio è dato da un cane che insegue una lepre, il cui significato – secondo un gioco di parole con la parola “Domenicani” – rimanda al ruolo di difensori che l’ordine religioso detiene (come il cane che insegue la lepre, simbolo di lussuria, per scacciarla e ucciderla). Più in alto nell’altare si può vedere l’immagine di un unicorno che purifica l’acqua immergendo il suo corno. Al tempo, si riteneva che il suo corno avesse il potere speciale di neutralizzare i veleni, considerando quindi l’animale come simbolo cristologico. Anche il bianco agnello realizzato nell’ultimo gradino della scalinata è un tradizionale simbolo di Cristo, in quanto vittima sacrificale per la salvezza dell’umanità. Il simbolismo religioso non è però presente solo in raffigurazioni animali: anche la spiga di grano e il grappolo d’uva rimandano ad un significato superiore, quello del vino e del pane dell’eucarestia, quindi al corpo e al sangue di Cristo. Oltre al cardellino, anche la passiflora è simbolo della passione di Cristo. Tuttavia, questo simbolo legato al mondo vegetale è più recente: il fiore della passione è stato infatti scoperto in America solo dopo lo sbarco di Colombo. Altre piante, invece, sono state realizzate con un intento puramente decorativo.
Tuttavia, animali e piante non sono gli unici protagonisti di quest’immenso e ben conservato apparato iconografico: in una lastra lapidea troviamo infatti la raffigurazione della scena della donazione della reliquia da parte del Re di Francia al futuro vescovo Bartolomeo da Breganze.

L’interessante conferenza termina con le parole del Presidente Bagnara, che ci informa sulla volontà dell’Associazione di portarci a scoprire dal vivo le magnificenze della chiesa. Gli Amici dei Musei di Vicenza hanno infatti in programma una visita guidata della chiesa di Santa Corona, una bellissima passeggiata nel centro città per conoscere i tesori artistici ed architettonici di cui è composta.

Noemi Zaupa

Salvador Dalì e il paesaggio dell’Ampurdan. Il paesaggio come identificazione inconscia, specchio dell’essere – Conferenza 16.02.2021

Martedì 16 febbraio ha avuto luogo su ZOOM il quinto incontro del corso di formazione “Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi”. La professoressa Katia Brugnolo e lo psicoanalista Davide Pagnoncelli ci hanno fatto scoprire il genio di Salvador Dalì analizzandone vita e opere artistiche attraverso il rapporto tra arte e psicoanalisi. Questo ciclo di incontri terminerà il prossimo martedì 16 marzo con la figura di René Magritte. Dopo i saluti istituzionali del presidente Mario Bagnara prende la parola la prof.ssa Brugnolo per introdurci la biografia di Salvador Dalì.

Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech nasce a Figueres, città della Catalogna situata nell’alto Ampurdan, l’11 maggio 1904. Il nome viene dato a Salvador in memoria del fratello primogenito morto prematuramente l’anno prima. Questo lutto segna profondamente la famiglia e soprattutto la psiche del piccolo Salvador, che i genitori considerano come il fratello redivivo. Dopo i primi tormentati anni scolastici, viene mandato nella tenuta del pittore Ramon Pichot, dove scopre e studia l’impressionismo francese. Da questa formazione iniziale nascono i primi dipinti giovanili, tra i quali Cadaques del 1922, caratterizzati dalla messa in evidenza dell’elemento luce come vuole la tecnica impressionista.
Dimostrando un talento geniale, Salvador inizia a seguire lezioni di disegno presso un artista qualificato e a partecipare a mostre collettive a soli 15 anni. Tra i primi esiti troviamo Autoritratto del 1920, quadro dallo stile impressionista che mostra il volto dell’artista immerso nella luce e nel paesaggio, cosa che lui amerà per tutta la vita. Nel 1920 il padre gli impone il trasferimento a Madrid per frequentare la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, dove vincerà una borsa di studio che gli permetterà di studiare a Roma quattro anni. Durante questo periodo si susseguono diversi eventi turbolenti nella vita di Dalì, prima la morte della madre e poi l’espulsione dall’Accademia a causa di una protesta da lui capeggiata. Definitivamente allontanato dall’Accademia, decide di tornare a Figueres per dedicarsi intensamente alla pittura. Frutto di questo periodo è Ritratto di mio padre del 1925, quadro che viene esposto alla sua prima mostra personale di Barcellona dello stesso anno.
Collegandosi ai drammi familiari, Pagnoncelli arriva ad affermare che l’arte di Dalì nasce molto spesso da drammi, frustrazione e da una svalorizzazione identitaria, nata dunque da eventi per i quali ci si è sentiti orfani d’identità e di emozioni. Da tutto ciò sgorga una impulsività intensa che l’artista raccoglie e canalizza verso l’arte. Dalì, quindi, utilizza inconsapevolmente i tratti della sua personalità al fine di creare arte; e lo fa non riproducendo semplicemente la realtà, ma facendola rinascere.

Brugnolo prosegue con la descrizione dei luoghi che hanno formato la personalità artistica del pittore: Port Lligat, Cap de Creus e Cadaques sono le località che lui frequenta fin dalla giovinezza, senza le quali non potremmo comprende a fondo le sue opere e la sua personalità. È lo stesso Dalì che afferma di sentirsi a casa solo in quei territori dell’alto Ampurdan, di essere legato a questa terra con un cordone ombelicale, completamente in simbiosi e in equilibrio con la variegata natura di queste zone.
Pagnoncelli conferma la presenza assidua di questi luoghi della giovinezza dell’artista nei suoi dipinti. Pur essendo diventato una star mediatica, un “divo per scelta”, Dalì è convinto che il suo trionfo l’ha conquistato solo grazie alla luce dell’Ampurdan e alla sua sposa Gala. È questa personalità dell’artista che domina l’opera e si impone su di essa. La stessa genialità artistica, la sua turbolenza e bizzarria nascondono una personalità disorganizzata e profondamente insicura. Lo stesso Dalì afferma che Gala è stata la sua salvezza dalla pazzia e da morte precoce. Nell’Autoritratto del 1921, precedentemente visto, appare il suo villaggio, che è un tema costante e rappresenta il ricorrente ritorno all’infanzia e all’ambiente familiare.

Brugnolo ci mostra che la pittura di Dalì si evolve verso una presenza quasi ossessiva del paesaggio dell’alto Ampurdan. Questa presenza viene declinata però in stili diversi: c’è un’evoluzione continua nel linguaggio artistico di Dalì, si parla infatti di maniera romantica, impressionista che poi si evolverà nel Surrealismo e Iper-surrealismo. Contemporaneamente però vediamo che è sensibile anche agli altri influssi artistici di altri autori contemporanei: nell’opera Porto di Cadaques di notte del 1918 adotta uno stile più fauvista, in cui si stagliano colori molti vivaci e brillanti e predomina l’uso del colore sulla forma. Infatti, le casette dei pescatori sullo sfondo sono prive di contorno e la forma è determinata da pennellate pastose di colore; mentre nel dipinto Donna davanti agli scogli del 1926 ritroviamo uno stile cubista.
Pagnoncelli si sofferma sul periodo surrealista di Dalì: il surrealismo puntualizza l’importanza dell’inconscio nel processo creativo, in contrasto con la ragione e la razionalità. Ecco allora la creazione di opere irrazionali, con accostamenti e associazioni inusuali, come troviamo negli orologi sciolti e molli dell’artista. L’instabilità percettiva fa creare a Dalì le sue celebri immagini doppie che si collegano e vengono poi riprese dal relativismo novecentesco, che mette in discussione l’esistenza di una realtà oggettiva universale. Lo stesso Dalì afferma che nel periodo surrealista desiderava ricreare un’iconografia del mondo interiore, il mondo fantastico, quello del padre Freud.

Procedendo con l’analisi stilistica di Dalì, la prof.ssa Brugnolo riconosce tra le influenze maggiori sull’arte del catalano, quella di Chavannes, da cui mutuò la semplicità compositiva, disegno schematizzato delle figure, assenza di profondità, tavolozza cromatica ridotta e neutralità del soggetto che è tratto dall’antichità, ricordando la statuaria greca classica; di De Chirico che fu determinante del liberare la pittura di paesaggio di Dalì dall’impasse cubista: tramite la pittura metafisica riuscì ad uscire dall’avanguardia inserendo nelle sue opere il valore dell’atemporalità della natura; e di Boecklin che, con il suo essere inquieto e inappagato, rappresenta nelle sue tele tutta la categoria degli artisti. É grazie alla pittura metafisica che il tempo diventa, nelle opere di Dalì, un tempo onirico. Osserviamo in Composizione surrealista con figure invisibili del 1936 circa una nuova duplice concezione del paesaggio: la prima, concreta, sullo sfondo del paesaggio tipico dell’Ampurdan (costa frastagliata con rocce che scendono sul mare), e la seconda in primo piano che fa da scenario con proiezioni e sogni. Quest’opera è frutto di una combinazione di associazioni stranianti e simboli pulsivi che tendono ad introdurre eros, tratti sadici, sogni e destrutturazioni spaziali e temporali. Dalì parla di “Sogni fotografici dipinti a mano” e di un “metodo paranoico critico”. Per lui la paranoia è “malattia mentale cronica, la cui sintomatologia consiste nelle delusioni sistematiche che possono prendere forma in mania di persecuzione, grandezza o ambizioni”. Ecco che nascono allora immagini dalle viscere dell’inconscio, fissate sulla tela razionalizzando un delirio che lui definì critico.

La produzione artistica di Salvador Dalì inizia ad essere analizzata seguendo una distinzione per tematiche del paesaggio, in primis quella del paesaggio come memoria-storia. Il paesaggio dell’alto Ampurdan compare nei dipinti di Dalì che guardano alla storia passata e quella attuale. Nel 1947, anno del dipinto Dematerializzazione del naso di Nerone, l’artista è in America e l’esplosione della bomba atomica avvenuta due anni prima è protagonista dell’opera. Questo dipinto mostra l’adozione dello schema prospettico rinascimentale: possiamo infatti vedere una piramide visiva tra il cubo quadripartito in basso e l’arco romano in alto. La melagrana, l’esplosione al centro del cubo, rappresenta la bomba atomica. In quest’opera quindi si fonde la tradizione classica e anche la realtà contemporanea. Nei suoi ultimi anni di vita Dalì riprende lo studio degli artisti del passato. Negli anni ’80 Dalì si sofferma maggiormente su temi esistenziali quali la vita, la morte e a tale proposito La Pietà di Michelangelo diventa il simbolo dell’umano patire. Nel febbraio del 1982 a Port Lligat dipinge Eco geologica La pietà. È una compenetrazione tra figure e paesaggio, in cui il marmo di Michelangelo si trasforma in roccia di Port Lligat che rappresenta il petto di Maria e il cuore e lo stomaco di Cristo. Pagnoncelli aggiunge che quest’opera evidenzia una personalità dirompente, straripante e maniacale che trascina con sé inquietudini e angosce perenni. Essendo il corpo rappresentato in pezzi, è presente una scissione dell’io come se fosse un delirio psicotico.

Si passa poi al tema de “il paesaggio e il male”. Il paesaggio della memoria convive in Dalì insieme agli eventi suoi contemporanei: gli orrori della Guerra Civile Spagnola iniziata nel luglio del 1936 si insinuano infatti nella bellezza del paesaggio di Port Lligat. Testimone di questa fusione è il quadro Il grande paranoico del 1936, che presenta un grande volto in primo piano replicato anche sullo sfondo a sinistra, in un’ambientazione desertica come la familiare pianura dell’Ampurdan. Il legame con il territorio è molto forte, a tal punto che gli stessi personaggi sono definiti da Dalì “autoctoni dell’Ampurdan, i più grandi paranoici”. Di questo grande capitolo fa parte anche il dipinto Spagna del 1938, dove la figura allegorica della Spagna è impersonata da un grane corpo femminile che si staglia su un paesaggio che ricorda sia l’Ampurdan che il deserto africano da cui sono partite le truppe di Franco per invadere la Spagna, presente anche nella composizione un gruppo di cavalieri in battaglia, che rimanda all’incompiuta Adorazione dei magi di Leonardo da Vinci molto ammirata da Dalì. Qui, la paranoia non è quindi considerata come solo disturbo psichico ma diventa la fonte primaria della creazione artistica. Pagnoncelli interviene dichiarando che, in tutte queste ultime opere, Dalì cerca di coniugare i due stati all’apparenza contraddittori – sogno e realtà – in una specie di realtà assoluta, una surrealtà. È verso quest’ultima che Dalì si muove. Si nota questa duplicità grazie alla presenza nei suoi quadri di immagini doppie, instabilità percettiva, miraggi, allucinazioni volontarie, sogni fotografici dipinti a mano, copri in pezzi, destrutturazioni spaziali e temporali.
Del gruppo de “il paesaggio e il male” fa parte anche Volto della guerra del 1940, dove si riconoscono le rocce di Cap de Creus. In basso a destra c’è una traccia dell’impronta della mano dell’autore, un’impronta scheletrica che ne segnala la presenza. Dalì scrive che i due motori più potenti che fanno funzionare il cervello artistico sono la libido e l’angoscia della morte, quindi è in questo tema che rientra pienamente quest’opera.

Per la sezione “il paesaggio e l’immaginario”, la prof.ssa Brugnolo ci presenta Le tre età del 1940, in cui appare un muro interrotto da aperture entro il quale compaiono i volti che corrispondono alle tre fasi della vita (infanzia, giovinezza e vecchiaia), tutte giocate sulle doppie – a volte triple – immagini. Sullo sfondo rivediamo il paesaggio dell’Ampurdan in cui domina la tonalità cupa del marrone che si estende alle rocce, ai promontori e agli scogli di Cap de Creus. Qui convivono anche personaggi familiari per Dalì, come la rammentatrice di reti in basso a destra, il bambino vestito da marinaretto che è il suo alter-ego della giovinezza e la balia. È presente anche la casa dell’artista dell’Ampurdan al centro degli occhi raffigurati nel dipinto.

Dopo l’invasione della Francia, Dalì si reca a New York dove le sue mostre personali aumentano notevolmente la sua popolarità, diventando così un fenomeno di massa. Negli ultimi anni produce arte con una connotazione mistica e religiosa che lui chiama “nuova era della pittura mistica”, dove cerca di connettere passione per la scienza, la religione e per i maestri della pittura, fino a pubblicare nel 1951 “Manifesto Mistico” per legittimare la sua pittura su temi religiosi ispiranti ai grandi artisti del rinascimento.

Il tema “paesaggio e desideri” è reso noto dall’opera Dalì galleggiando su Port Lligat e il Dalilips del 1975, realizzato tramite la tecnica olio su fotomontaggio digitale. È durante il suo viaggio a Londra verso la fine degli anni ’30 che scaturiscono molto idee per la produzione di mobili e oggetti surrealisti, tra cui entra anche il Dalì lips. In quest’opera la protagonista è sempre la spiaggia di Port Lligat, a cui si riferisce anche il divano in primo piano: è lo stesso Dalì che afferma di aver concepito un’oggetto morbido in cui sedersi per ovviare al problema della scomoda seduta delle rocce della baia.

L’ultimo tema presentato dalla docente Brugnolo è “il paesaggio e il vuoto”, ciò che c’è ancora e ciò che non esiste più. Dalì parla spesso nei suoi scritti dei fantasmi della sua infanzia: in Tavola solare del 1936 allude infatti al Golfo de Rosas, una spiaggia in costa brava da lui molto amata. A questa località si ispira per creare una serie di dipinti, i “quadri bianchi”, in cui ci sono scenari marini immersi in luce malinconica del tramonto. Sono delle vere e proprie allucinazioni, come Tavola solare: sembra infatti di essere davanti a un miraggio. L’artista è autoritratto nel ragazzo di spalle a destra che sta osservando l’amato promontorio. Ai suoi piedi sono presenti alcuni reperti archeologici che rappresentano l’antica storia di questo territorio, legata alle dominazioni fenice e greco-romane, e un pacchetto di sigarette Camel che ci riporta alla contemporaneità. L’ultima opera analizzata è Coppia con la testa piena di nuvole del 1937, un dittico composto da due tavole raffiguranti ciascuna la silhouette di un uomo. Uno dei due è più esile dell’altro, probabilmente perché Dalì sta raffigurando la relazione archetipa padre-figlio, letta alla luce degli studi freudiani. Lungo questa stessa linea Dalì introduce nelle sue opere di fine anni ‘20 il tema del Guglielmo tell, interpretato come figura del padre autoritario e prevaricatore. Sullo sfondo compaiono delle rocce dell’alto Ampurdan che si stagliano su un cielo coperto di nuvole che ricordano i dipinti di Magritte.

Questo quinto appuntamento si conclude con un omaggio della prof.ssa Brugnolo che ci mostra le sue sculture Mani-Danza del 2019, vincitrici del Premio Arte della fondazione Mazzoleni e definite surrealiste dalla critica. Pagnoncelli recita invece una sua poesia dal titolo “Dalì verso aldilà onirici”.

Noemi Zaupa

Joan Mirò e la Terra. La natura motivo di felicità interiore, al centro della vita e dell’espressione artistica – Conferenza 19.01.2021

Martedì 19 gennaio si è tenuto il quarto incontro del corso di formazione “Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi”. La professoressa Katia Brugnolo e lo psicoanalista e psicoterapeuta Davide Pagnoncelli ci hanno accompagnato alla scoperta dell’arte di Mirò e dei suoi risvolti psicologici. Un tema innovativo e di grande interesse, un progetto pilota, che ha attirato un centinaio di interessati provenienti da tutta la penisola. Dopo i doverosi saluti istituzionali del Presidente Bagnara, la professoressa Brugnolo ci introduce alla scoperta della biografia di Joan Mirò.

L’artista nasce a Barcellona il 20 aprile 1893, figlio primogenito di un orefice. Nel 1900 inizia i suoi studi prendendo anche lezioni di disegno. Nel 1959 ricorderà l’esperienza delle lezioni artistiche come un rito religioso, sacralizzando gli strumenti che adoperava. Continua i suoi studi in arte ed entra in una scuola commerciale; dal 1910 lavora come contabile, dovendo rinunciare alle lezioni artistiche. Un anno dopo però si rende conto che quella vita gli stava stretta e con una lettera informa i genitori di voler proseguire con la pittura. Mont-roig del Camp, città della Tarragona, è un luogo centrale nella vita di Mirò: vi passerà la convalescenza in seguito a un esaurimento nervoso, e vi tornerà durante l’arco della vita. Qui riprende contatto con la natura, altro elemento essenziale nella sua poetica. Tornato dalla convalescenza frequenterà un istituto d’arte, dove imparerà a disegnare ad occhi chiusi. Abilità che gli tornerà utile verso la fine degli anni ’20, quando intraprenderà l’esperienza dell’anti-pittura riscoprendo il valore tattile.

Di qui si intuisce bene il legame con la terra, che per l’artista ha un duplice valore: può significare sia la sua Catalogna, il paesaggio contadino a cui era affezionato, sia la dimensione locale in opposizione a quella universale. A riprova di ciò Brugnolo procede illustrandoci un murales di Mirò, El segador catalan (il falciatore catalano) del 1937, rappresentante un contadino, figura e categoria emblematica della terra natia.

Ma veniamo al momento aurorale della sua produzione, le prime opere vedono come soggetto Mont-roig in termini di “paesaggio interiore”: attrezzi agricoli, terra e contadini, il lavoro rurale come protagonista, l’attenzione ad ogni singolo, apparentemente insignificante, filo d’erba;  in particolare in alcune opere come La casa de la palmera (Casa con palma) del 1918, Villaggio e chiesa di Mont-roig (1919), opere iniziali di Mirò, non è ancora visibile lo stile surrealista per il quale diverrà famoso. Attorno al concetto di Terra in Mirò si condensano anche i temi di femminilità, vitalità, fecondità, come nel dipinto La masovera (1922-23). Nel 1920 Mirò compie il su primo soggiorno a Parigi, dove frequenterà anche lo studio di Pablo Picasso con cui in un’amicizia che avrà durata per tutta la vita.

La masìa (la fattoria) del 1921-22, nonché copertina di questo incontro, ben rappresenta gli anni in cui Mirò frequenta esponenti del movimento surrealista e informale.

Pagnoncelli a questo punto ci inizia alla sua riflessione: la psicoanalisi come strumento e processo di svelamento con lo scopo di riconoscere le strutture interne inconsce dell’individuo per raggiungere la piena realizzazione di sé. La produzione artistica è uno dei mezzi per svelare queste strutture e per canalizzare determinati impulsi. L’artista è colui che vira dalle strade ordinarie per raggiungere la straordinarietà. L’arte è parente stretta del sogno ed è porta privilegiata per giungere all’inconscio. L’arte fa rinascere e rivivere la realtà, è cibo per l’intelligenza emotiva.

Il professore entra poi nel vivo della natura artistica di Joan Mirò, il quale può insegnarci cinque cose: in primis a ragionare meno e a sentire di più; ad essere connettivi con tutto ciò che ci circonda, perfino con un filo d’erba avviene la connessione con la natura e il cosmo; in terzo luogo la capacità di mantenere la nostra identità con determinazione; ci suggerisce maniere differenti di guardare il mondo attraverso connessioni profonde; in ultimo ci insegna che l’arte può essere terapeutica, può curare l’individuo.

Procede poi la professoressa Brugnolo, accompagnandoci alla scoperta delle influenze giapponesi nella pittura di Mirò, in particolare per quanto riguarda la tendenza dettaglistica, visibile nelle opere dell’artista asiatico Hokusai.

Negli anni ’20 inoltrati la pittura di Mirò subisce un’ulteriore evoluzione dovuta all’incontro col cubismo, col dadaismo anche letterario e con la pittura di Paul Klee. Interpreta il colore come pura luce, diventa sostanza incorporea in alcune opere, accanto alla geometria tipica del cubismo, com’è visibile nel dipinto Danzatrice spagnola (1924). Brugnolo procede con La Terre labourèe (Terra arata) del 1923-24, che conclama lo stile originale dell’artista, ibrido tra il surrealismo ed alcuni elementi cubisti. Utilizza una tavolozza suggestiva e vivacissima che ci comunica l’interiorità dell’artista. Lo sfondo non è più quello realistico delle prime produzioni, ma è uno sfondo monocromo, per questo opera emblematica del surrealismo. Procede illustrandoci una serie di dipinti definiti onirici, perché legati al sogno. Tutte opere caratterizzate dallo sfondo monocromo, dall’incertezza degli elementi a simboleggiare l’instabilità tipica del sogno. Tra queste opere Pastorale (1923-24), Contadino catalano con chitarra (1924), Stelle dentro sessi di lumaca (1925), Testa di contadino catalano (1924) e Carnevale di Arlecchino (1924-25). Quest’ultima opera gioiosa in cui Mirò esprime la sua gioia di vivere. Rappresenta una scena di teatro, una sorta di danza fantasiosa. L’elemento della scala, con un orecchio e un occhio attaccati, è elemento che tornerà in Mirò, e rappresenta la capacità di elevazione dell’artista.

Pagnoncelli ci introduce alla scoperta dei risvolti più psicologici di Carnevale di Arlecchino: la conquista surrealista dell’inconscio, un inno di segni e simboli. La scala è elemento di collegamento tra mondi, e sta a significare anche un percorso di crescita ed evoluzione.

Brugnolo prosegue illustrandoci il dipinto La nascita del mondo (1925), che introduce il concetto di primitivismo. Opera realizzata con pigmenti molto diluiti e poche e semplici forme geometriche. Ci comunica l’dea di un mondo in gestazione, e si inserisce appunto nel dibattito sul primitivismo, imperante nell’Europa del periodo. Nel 1927 Mirò torna a Parigi e qui il suo linguaggio muta nuovamente nella direzione dell’anti-pittura: una ribellione dell’artista contro le tecniche pittoriche tradizionali, adotta il collage, gli assemblage, e sposta il suo interesse verso il piano tattile. Di questo periodo è l’opera Collage (1929). Negli anno ’30 Mirò è influenzato anche da Hans Arp, che si cimenta in sculture biomorfe, interpretazioni astratte delle forme biologiche naturali. Mirò si dedica quindi alla realizzazione di oggetti surrealisti, quali L’oggetto del tramonto (1937), una delle produzioni surrealiste più famose.

Effettivamente, come riflette Pagnoncelli su quelle che sono state le modalità di operare di Mirò, vediamo che il primo stadio è più libero, inconscio, il secondo invece attentamente calcolato e curato. Ne è un esempio La nascita del mondo, in cui  l’artista si immerge nella possibilità della libertà creativa e svincolata, prestandosi così al flusso.

Ad inizio anni ’30 produce una serie di dipinti, cosiddetti “selvaggi”, in cui rappresenta elementi plutonici, a evocare una discesa agli inferi: Il pasto dei contadini (1935) è opera di questo periodo, in cui rappresenta quasi una scena teatrale in cui questi personaggi, degli animali e l’ormai tipico contadino catalano, danzano in festa. Altri dipinti sono Due donne, del 1935, e Paysan catalan au repos (Contadino catalano che riposa) del 1936. La sua produzione di questi anni dimostra la passione di Mirò per le pitture rupestri primitive, in particolare della Grotta di Altamira.                                                                                                                                                                                                                      Verso la fine anni ’30 Mirò torna a Parigi e si cimenta nella produzione di nature morte, quali Natura morta con scarpa vecchia (1937), che la critica, per l’atmosfera catastrofica e la potenza visiva, equipara a Guernica di Picasso. Il dramma era il medesimo, la guerra civile spagnola, e l’artista percepisce la necessità di attaccarsi agli oggetti semplici e quotidiani. Pagnoncelli si sofferma sull’elemento della scarpa, elemento molto comunicativo che trasmette il dramma della guerra.

Il primo aprile 1939 le truppe di Franco vincono e Mirò è costretto ad esiliare a Parigi. La situazione politica successivamente si aggrava con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e rimarrà nella località di mare francese in cui decide di passare l’estate del ’39; il paesaggio della zona lo ispira per una serie di dipinti, che viene reinterpretato insieme alla natura, alla femminilità e alle connessioni cosmiche, di cui sopra. Appartenente a questa serie Numeri e costellazioni innamorati di una donna (1941), Il canto dell’usignolo a mezzanotte e la pioggia mattutina (1940), The passage of the divine bird (1941). Esse rappresentano le ultime opere che questo straordinario artista ci ha lasciato in eredità.

La conferenza si conclude con una gradita sorpresa da parte dei due relatori: il prof. Pagnoncelli omaggiandoci di un suo componimento poetico sull’artista, Mira Mirò, e la prof.ssa Brugnolo mostrandoci una sua opera ceramica ispirata all’arte dell’artista.

 

Federica Gigliozzi

Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni – Conferenza 15.12.2020

Nella serata di martedì 16 dicembre si è tenuto il terzo appuntamento del Ciclo di formazione Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi. Dopo il riuscitissimo esordio della professoressa Brugnolo, è stata la volta del prof. Luca Trevisan che ci ha accompagnato alla scoperta del contenuto del suo libro “Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni”.

Dopo un breve cappello introduttivo con i doverosi saluti istituzionali a cura del presidente Mario Bagnara, Trevisan ci porta alla scoperta del rapporto tra la nostra città e l’Altopiano. Il Respiro del bosco è frutto di una ricerca del professore durata più di un anno, un libro che racconta delle novità sulla storia dell’Altopiano attraverso documenti inediti e rivisitati, la maggior parte conservati nell’Archivio Torre della Biblioteca Bertoliana.

Trevisan ricorda la preziosa collaborazione di Tarcisio Bellò ed Egilio Fontana al progetto. Il testo, come ci racconta, ripercorre alcuni episodi della storia dell’Altopiano, soprattutto nel frangente dei rapporti della città di Vicenza con i Sette Comuni, ponendo in dialogo la microstoria con la macro storia, la storia locale con la storia internazionale.

Trevisan procede nel racconto servendosi di alcune immagini di supporto. Ci ricorda di come l’Altopiano sia un luogo di incontri multiculturali tra popolazioni nordiche e padane. Procede raccontandoci l’importanza della famiglia Da Romano, in particolare nella figura di Ezzelino III nella prima metà del XIII secolo, in quanto sancisce l’inizio del monopolio di Vicenza sulla proprietà delle montagne della fascia settentrionale. Procediamo nel secolo successivo, quando nel ‘300 Vicenza inizia a gravitare nell’orbita della signoria scaligera, la quale ha un occhio di riguardo per queste montagne ai quali abitanti gli Scaligeri propongono esenzioni fiscali, che verranno confermate anche quando questa fascia nel 1405 diviene possedimento della Repubblica Serenissima di Venezia.

Fino ad a quella data, difficilmente si parla di Sette Comuni, questi infatti non presentavano ancora una struttura definita fino ai primi decenni del 1400. Trevisan procede raccontandoci le risorse della fascia settentrionale di queste montagne: i pascoli, fittati prevalentemente ad abitanti del luogo e principalmente riservati all’allevamento di ovini, e i boschi, tema maggiormente dibattuto nelle controversie che hanno attraversato i secoli successivi. Questi boschi, non venivano fittati ma ceduti agli abitanti dei Sette Comuni, i quali se ne servivano per prelevare legna. Il legname era bene assai prezioso, Trevisan nel suo volume lo nomina come il petrolio dell’epoca. Ci riporta poi un interessante passo dell’abbate Agostino dal Pozzo, nel quale esso ammonisce i suoi concittadini sul fatto di tagliare indiscriminatamente il bosco, e ne parla come di un patrimonio da preservare e da trasmettere alle generazioni future. Passo che evidenzia l’estrema e precoce consapevolezza dell’abate Dal Pozzo sulle questioni di sostenibilità, sia per ragioni di carattere economico che di salvaguardia ambientale, infatti si dimostra cosciente del rischio idrogeologico che deriva da uno scellerato sfruttamento. Parole profetiche e di grandissima modernità, sottolinea Trevisan.

Procede, a questo punto, illustrandoci le controversie che nascono tra Vicenza e la reggenza dei Sette Comuni, che a un certo punto avanza pretese di uso civico su queste montagne. Controversie che sfociano in vere e proprie cause legali, di cui abbiamo diverse testimonianze. Conflitti che è utile inquadrare nel contesto internazionale dei rapporti, tesi, tra Venezia e l’impero. Trevisan procede raccontandoci del Congresso di Trento del 1533-35: importante momento durante il quale si cerca di chiarire chi fosse il legittimo proprietario di quelle montagne, in particolare le due aree della piana di Vezzena a ovest e piana di Marcesina a est, varcate sia dai boscaioli vicentini sia, dato il facile accesso e la loro posizione di confine, da popolazioni trentine provenienti quindi da nord. Nel congresso di Rovereto del 1605 verrà stabilita la divisione di Marcesina in due e l’attribuzione di Vezzena a Levico, quindi al Trentino. Punto interessante, sottolinea il professore, è che l’attribuzione non viene definita seguendo il diritto di proprietà, ma attraverso il criterio dell’uso continuativo di quegli spazi e quelle montagne. Così la città di Vicenza interpellerà l’Istituto della Licenza veneziano, e questa stabilisce che chiunque voglia tagliare il legname debba avere una apposita licenza rilasciata da Vicenza stessa. Ciò stabilirà le zone disboscabili, scelta strategica da parte della nostra città in modo da lasciare intoccati i passi, così da renderli meno accessibili dalle popolazioni da nord. Scelta che è conseguenza della preminenza del criterio di utilizzo.

Trevisan continua raccontandoci un altro aneddoto: nel 1586, per la prima volta, Vicenza decide di affittare per 12 anni alcuni boschi della Marcesina, e non era mai successo che affittassero per una durata così lunga. Nacque da questo fatto una reazione scomposta e violenta degli abitanti dei Sette Comuni, i quali non accettano che venga ceduta. Tant’è che nel 1587 viene a galla un documento datato 1327, epoca scaligera, che sosteneva che Cangrande I della Scala cedette le montagne alla reggenza dei Sette Comuni. Tuttavia era un falso e viene immediatamente scoperto dalla giustizia veneziana, quindi non produce gli esiti sperati. Trevisan conclude, illustrandoci il motivo per cui Vicenza decise di affittare i boschi per motivi commerciali: da metà ‘500 a metà ‘800 inizia periodo di grande freddo, denominato la piccola glaciazione. Ci racconta un piccolo aneddoto per cui alcuni documenti riportano che in piena estate i vicentini erano costretti a girare in pelliccia e ad accendere il fuoco, ed inoltre venne indetto un bando per la caccia ai lupi, i quali erano scesi in pianura dato il drastico abbassamento delle temperature. Periodo in qui si acutizzano le dispute giudiziarie tra Vicenza e i Sette Comuni, e ad un cero punto emerge volontà di dividere le proprietà dell’una e dell’altra parte in modo chiaro.

Successivamente, nel corso del 1700, Vicenza inizia a manifestare un progressivo disinteresse sulla gestione di quelle montagne. Il 14 aprile 1783 con una delibera comunale, la città cede ai Sette Comuni le montagne che erano state di sua proprietà. Questi per un periodo mantengono l’uso indiviso, tuttavia successivamente subentrando incomprensioni per la gestione delle rendite provenienti dall’ affitto di boschi e pascoli, l’Altopiano viene diviso. Il primo accordo, ci informa Trevisan, avverrà solo nel 1914, dopo un lungo periodo di processi. Un anno più tardi proprio su quelle montagne si consumerà la guerra, e alla fine di essa verrà considerata necessaria una revisione di quel documento date le intere sezioni di boschi rasi al suolo dai combattimenti.

Si giunge a una soluzione solo alla fine di dicembre del 1925, con un atto che sancisce che tutta la fascia dell’Altopiano rimanga al comune di Asiago, mentre una parte di esso viene ceduta in proprietà ad ognuna delle sette comunità dell’Altopiano. Quest’atto divisorio ha ancora valenza ai giorni nostri. Il professor Trevisan conclude la conferenza condividendo con i numerosi spettatori una riflessione: quando camminiamo per le città abbiamo l’impressione di star camminando nella storia, ma quando camminiamo nei boschi no, ed è necessario, a suo avviso, prendere coscienza del patrimonio storico che le nostre montagne ed i nostri boschi rappresentano.

L’incontro si è concluso con diverse domande rivolte al relatore, a dimostrazione del vivo interesse degli ascoltatori.

Come ci ricorda al momento dei saluti il prof. Luca Trevisan, è fondamentale cogliere l’attenzione per la tematica della sostenibilità, che già imperversava all’epoca, e farne prezioso insegnamento.

Federica Gigliozzi

 

L’evoluzione stilistica di Giambattista Tiepolo dal periodo giovanile alla maturità – Conferenza 10.12.2020

Giovedì 10 dicembre si è svolto il primo incontro del ciclo di formazione “Tra Arte, Restauro e Psicoanalisi” tenuto dalla professoressa Katia Brugnolo che ci ha accompagnati alla scoperta del celebre artista Giambattista Tiepolo presentando parte della sua ampissima produzione e ricostruendo le tappe evolutive del suo stile.

Partendo dalla fase giovanile, troviamo Tiepolo come garzone presso la bottega del maestro veneziano Lazzarini, nella quale si formerà per sette anni fino al 1717, data che segna anche la sua entrata nella fraglia dei pittori veneziani. Attraverso l’utilizzo di diapositive, Brugnolo ci accompagna alla scoperta delle opere. Il viaggio inizia dalla Circoncisione del Lazzarini, in cui si esplica il dualismo tra tenebrismo e chiarismo, per procedere poi con l’analisi dell’opera di un altro grande maestro essenziale per la formazione, il Piazzetta con l’Estasi di San Francesco. Terzo artista incisivo per la giovinezza dell’artista è Louis Dorigny, in particolare per gli affreschi a Villa La Rotonda del Palladio.

Il percorso procede prendendo in considerazione le prime opere del Tiepolo, in cui il suo primo stile pittorico è caratterizzato da grafia nervosa e tormentata, imponenza dei volumi delle figure e la presenza di riflessi bluastri nelle ombreggiature. Brugnolo ricorda un’opera particolare di questa fase dell’artista in quanto di dimensioni minutissime (11,5 cm circa), probabilmente il coperchio di una tabacchiera, il Memento Mori conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il viaggio prosegue attraverso il primo intervento ad affresco del Tiepolo, quello a villa Baglioni a Massanzago (Padova), in collaborazione col Mengozzi Colonna. Già evidenti da questa fase gli splendidi cieli dell’artista, i primi studi, già magistrali, sulla luce e sul rapporto tra figure e spazio, qui evidenziati in particolare dalle quadrature del collaboratore. Leggerezza e senso di lievità pervadono quindi le sue opere dai primissimi esperimenti.

Brugnolo procede col Martirio di San Bartolomeo per la chiesa veneziana di San Stae, emblema della sua rapace capacità di assimilare modelli dagli altri artisti, e la Crocifissione di Burano con la sua luce abbagliante che sarà un elemento tipico di tutte le opere del Tiepolo. Veniamo a uno snodo nella sua evoluzione attraverso l’incontro con l’architetto ticinese Domenico Rossi, grazie al quale svilupperà un senso della luce come luminosità solare che avrà modo di sperimentare negli edifici restaurati proprio dallo stesso architetto. Nell’ affresco a soffitto il Potere dell’Eloquenza, presso Palazzo Sandi a Venezia, sviluppa un modello compositivo che avrà ampia fortuna anche successivamente: protagonisti laterali che si affacciano e un vortice centrale che crea una smaterializzazione delle figure in turbini di luce.

Il ciclo per il palazzo arcivescovile di Udine sancisce il definitivo sposalizio tra Tiepolo e la rappresentazione di una luce solare e pervadente, che il pittore ha assimilato indubbiamente anche attraverso l’osservazione della produzione del Veronese. Inoltre è qui evidente la costruzione teatrale delle raffigurazioni, rappresentazioni pervase di armonia compositiva e cromatica e inoltre l’ampio uso di scorci, sancite tutte come caratteristiche riconoscibili del pittore.

Mentre nel dipinto Alessandro e Campaspe nello studio di Apelle conservato al Museum of Fine Arts di Montreal, Tiepolo ci fa intravedere la sua tecnica di preparazione dei supporti pittorici, a fondo scuro, a conferma delle analisi diagnostiche degli studiosi.

Affrontando il periodo della prima maturità (1729-1737) si nota l’affaccio e l’interesse di mettersi alla prova nei grandi cicli di affresco, come ci spiega Brugnolo.  Particolarmente evidente la dissolvenza nella luce delle figure protagoniste di questi cicli e il dosaggio chiaroscurale di scuola veronesiana, come a Palazzo Archito e Palazzo Casati Dugnani a Milano.

Al periodo Milanese succede il ritorno a Venezia caratterizzato da una proposta di soggetti prevalentemente religiosi, come l’Immacolata Concezione conservata al Museo Civico vicentino, che introduce la novità della composizione delle figure attraverso un moto gestuale e di sguardi. Altro snodo della carriera del pittore è l’opera Maria in gloria tra apostoli e santi, conservato nella Chiesa di Ognissanti a Rovetta (Bergamo): lo zigzagare stenografico a definire le composizioni spaziali, una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione dello spazio, ed il tratto caratteristico del Tiepolo che suggerisce la velocità d’esecuzione. Procediamo attraverso i cicli per Villa Loschi Zileri Dal Verme a Biron (Vicenza) e la Chiesa dei Gesuati a Venezia. Quest’ultima, in particolare nell’affresco Apparizione della Vergine a San Domenico mostra caratteri stilistici completamente rinnovati: il Tiepolo introduce colori diafani, scambi spaziali tra realtà e rappresentazione e un tessuto cromatico iridescente, il tutto è completamente avvolto nel biancore connotando una novità nel registro cromatico dell’artista.  Brugnolo procede attraverso la Salita al Calvario, conservata a Sant’Alvise a Venezia, e la composizione a spirale e ulteriori studi sulla luce.

Il Tiepolo nel 1740 torna a Milano e ne La corsa del carro del Sole a Palazzo Clerici a Milano, introduce il cliché apollineo dell’idealizzazione della bellezza, il quale permarrà in quasi tutta la sua produzione successiva. Ulteriori elementi di novità si avvertono nel ciclo veneziano per la Scuola Grande dei Carmini: si tratta della scompaginazione iconografica, ossia un’operazione di scomposizione e ricomposizione iconografica arbitraria da parte dell’artista nelle figure allegoriche.

L’attività dell’artista continua a Villa Cordellina Lombardi a Montecchio Maggiore (Vicenza): Tiepolo conduce indagini sulla luce creando ombre in controluce negli affreschi spesso di consistenza pulviscolare.

Giungiamo poi al celebre intervento presso la Residenz di Wurzburg alla quale Tiepolo approda nel 1750. Ciclo prestigioso a livello internazionale, in particolare l’intervento nella Kaisersaal (stanza del trono), affreschi di iconografia politica e/o storica, in comunicazione con gli stucchi del Bossi. L’apice del ciclo è il soffitto affrescato rappresentante L’Olimpo e i Quattro Continenti, che riporta il cliché apollineo circondato dalle allegorie.  Brugnolo racconta un particolare curioso: accanto alle figure mitologiche vengono rappresentati anche gli artisti contemporanei che progettarono e costruirono la Residenz, tra cui Tiepolo stesso e il figlio Gian Domenico. Dopo l’impresa di Wurzburg e il rientro in patria, Tiepolo accetta la commissione del ciclo per Villa Valmarana ai Nani a Vicenza, in cui introduce grandi novità: il trionfo della sensibilità personale, l’arte che parla al cuore contro l’arte encomiastica, che fanno affiorare la nuova esigenza artistica di naturalezza e verità. Tiepolo in questa sede precorre i tempi dimostrandosi artista preromantico.

Brugnolo passa ad analizzare l’ultimo periodo dell’artista selezionando alcune opere: Santa Tecla intercede per la liberazione di Este dalla pestilenza, conservata nel Duomo atestino, caratterizzata da estremo pathos comunicato anche dai colori lividi a prevalenza di grigi; l’Apoteosi di Orazio Porto, in cui si vede lo stile bozzettistico che caratterizza la produzione matura e finale della vita di Tiepolo, creato sulla base di procedimenti zigzaganti rapidi e sintetici.

Ultima impresa è quella a Madrid, presso il Palazzo Reale, in cui recupera lo stile dei grandi cicli ad affresco precedenti. L’ultimissimo periodo lo vede confrontarsi con le tematiche religiose, che trasmette pittoricamente attraverso un processo di sintesi ed espressione di profonda interiorizzazione dei temi sacri, si veda San Pasquale Baylon adora il Santissimo Sacramento e San Francesco d’Assisi riceve le stimmate, tele entrambe conservate al Prado.

Brugnolo conclude l’esposizione con un’opera risalente agli ultimi mesi di vita del Tiepolo, Riposo nella fuga in Egitto, conservata alla Staatgalerie di Stoccarda. Qui la sacra famiglia lascia spazio alla natura come protagonista. Il Tiepolo si dimostra definitivamente artista preromantico, rimanendo fedele ad un’esecuzione veloce e saettante. Giambattista Tiepolo morirà poco dopo, lasciando in eredità all’umanità un patrimonio inestimabile.

L’evento si conclude con i saluti istituzionali del presidente dell’Associazione, il prof. Mario Bagnara. Inoltre, un cappello finale con la professoressa Brugnolo, ora in veste di artista ceramista, che presenta le sue ceramiche su ispirazione delle opere del Tiepolo, a evidenziare l’attualità e la contemporaneità del sentimento che pervade le opere del celebre pittore.

Il secondo appuntamento con il corso di formazione è stato indubbiamente un debutto riuscito, un primo tentativo da parte degli Amici dei Musei di Vicenza di adattare la propria proposta culturale al difficile periodo della pandemia, in modo da poter perseguire anche in questi tempi difficili i propri obiettivi di promozione della cultura.

Federica Gigliozzi